“Mi sono buttato a corpo morto verso una resa a tutta pasta. Spese pazzesche di colori, ma in compenso maggior rapidità di esecuzione, una straordinaria vitalità delle figure, una grande modernità”.
Dalla biografia di Brancaleone Cugusi da Romana sappiamo che fu un autodidatta nel senso più letterale del termine. Fin da piccolo si dilettava, o meglio sentiva la necessità, di ritrarre gli oggetti e soprattutto le persone che gli stavano intorno. I suoi erano schizzi immediati, quasi appunti grafici ottenuti con pochi tratti di matita che disegnava su quaderni, frontespizi di libri e, più tardi, su degli album che teneva sempre a portata di mano. Solo più tardi giunse alla pittura, ed anche questa in maniera spontanea.
Nel periodo romano (1930-1934), i ritratti sono a mezzo busto, raramente a figura intera, con particolari anatomici perfettamente descritti. Altra caratteristica è la maniera di trattare il colore, con una pittura liscia, molto tirata, che in seguito sconfessò, definendola “troppo leccata” o “troppo finta”.
Nel periodo cheremulese (1936-1940), elaborò la tecnica a “mezza pasta” ed a “tutta pasta”.
Durante il suo primo soggiorno a Roma, aveva frequentato lo studio del pittore Ferruccio Ferrazzi, dove aveva approfondito la conoscenza di Piero della Francesca e dei grandi ritrattisti del rinascimento.
Dallo studio delle opere del pittore verista romano Antonio Mancini apprese l’uso della fotografia e del reticolo a supporto dell’assoluto rispetto delle proporzioni del ritratto. in un primo momento, come il Mancini, rimosse i fili dalla tela, ne cancellava le tracce. Nelle opere successive, quelle più importanti, lasciava i segni in evidenza per una sorta di onestà intellettuale, non volendo nascondere nulla del proprio modo di operare. Questi segni sono anche una specie di marchio di autenticità per i dipinti che raramente firmava.
Alternava spesso l’uso della spatola a quello dei pennelli, che dimenticava di riporre preferendo di tenerli pronti fra i denti.
Nella sua ricerca della precisione, riportava sulla tela non soltanto gli oggetti che entravano nel suo campo visivo, ma anche le ombre proiettate da quegli altri presenti fuori campo.
Per la sua maniera di trattare le ombre e per i soggetti delle opere, così vicini al “realismo quotidiano” del Caravaggio, si è voluto vedere in lui un influsso del pittore seicentesco. La sua pittura è stata paragonata anche, per alcuni aspetti, a quella del Mancini, per altri a quella di Piero della Francesca, di Zurbaràn e di Vermeer.
Di lui il critico d’arte Vittorio Sgarbi racconta:
Brancaleone Cugusi da Romana era un formidabile fotografo, di ogni dipinto esiste l’originale prototipo fotografico. Le tele di Brancaleone da Romana sono tutte a grandezza naturale; essa viene garantita dal procedimento reticolare, che consente di non deviare neanche di un millimetro dal prototipo fotografico. Brancaleone Cugusi non copiava le fotografie, gli sembrava però inutile tenere in posa un modello quando poteva bloccarlo attraverso la fotografia. L’anima era nella pittura e, nella capacità di cogliere l’elemento che sfugge alle fotografie, l’ombra.
Nessun pittore, neanche Caravaggio ha dipinto l’ombra come Cugusi. Disegna e dipinge sulla tela come sul telaio, usando una pittura dalla pasta fluida e mobile, quella che lui chiamava “a tutta pasta”, intonata verso il verde e attribuendo fremiti di vita a una composizione e a un’idea della forma che altrimenti sarebbe potuta rientrare nei termini della tendenza “accademica” che avrebbe voluto evitare.
(Vittorio Sgarbi – Brancaleone da Romana – 2004 – Skira editore, Milano)